RECENSIONI
Il respiro e Il freddo di Thomas Bernhard
Sono i titoli dei primi due romanzi che compongono l'autobiografia dell'austriaco Thomas Bernhard. Li leggo davanti al tepore della stufa, perchè pagina dopo pagina il freddo penetra più a fondo nelle ossa, si accampa nei polmoni e rende difficile il respiro.
Manca l’ossigeno come al diciottenne Thomas che lotta contro una grave malattia polmonare in un reparto d’ospedale che nulla invidia a un girone dantesco. Eppure in quel “trapassatoio” come lo chiama lui, la morte è soprattutto conoscenza corporea e sensoriale mai disperazione, piuttosto accettazione che si trasforma in determinazione, decisione a vivere non a sopravvivere: “Dal mio punto di vista il problema di sapere che cosa io sarei diventato, ossia che cosa sarebbe stato di me quando mi fossi rimesso in salute, non era assolutamente un loro problema, bensì esclusivamente un problema mio. Io non volevo diventare assolutamente niente, e ovviamente non ho mai desiderato diventare una professione, ho sempre desiderato diventare me stesso e nient’altro. Ma questo fatto, proprio per la sua semplicità e al tempo stesso per la sua brutalità, loro non l’avrebbero capito.”
Un anno dopo, segregato in un sanatorio pubblico vista sulla montagna piena di aria pura di cui noi umani – sani - non sappiamo che farcene mai, s’interroga ancora: “La verità è sempre un errore, benché sia verità al cento per cento […]. La via dell’assurdo è la sola praticabile.” Mi sono chiesta perché questo giovane uomo con i polmoni incasinati mi attiri così tanto, ovviamente in piccole dosi; talvolta sadica l’ho lasciato agonizzare con i suoi compagni tisici.
Autobiografia o libro sapienziale? Letteratura.
In Movimento di Oliver Sacks
S’intitola On the Move, a Life l’autobiografia del neurologo e scrittore inglese Oliver Sacks (1933 -2015), pubblicata da Adelphi con il titolo In Movimento. La foto di copertina mostra un Sacks giovane, cavalcioni di una moto; un’immagine virile, atletica, molto diversa da quella tradizionale del vecchio con folta barba grigia, poco attraente se non per lo sguardo di una vivacità indomita, cui ci ha abituato l’iconografia sacksiana.
“Al peggio, si è in movimento; al meglio, / non raggiungendo un assoluto in cui fermarsi, / gli si è sempre più vicini non restando immoti.” Sul finire delle quattrocento pagine autobiografiche Sacks cita alcuni versi di On the Move di Thom Gunn, con il duplice scopo di rendere omaggio a un poeta cui è legato da affetto intellettuale – e scambi epistolari e frequentazioni – e di celebrare la propria vocazione al movimento. Come Gunn, Sacks nasce a Londra ma non tarda a sentirsi attratto dalla California degli anni Sessanta. Affrancandosi dal passato, dà il via a una serie di “viaggi, evoluzioni e sviluppi non interamente prevedibili e controllabili.” Viaggiando da un continente all’altro, si sposta in moto, a cavallo, percorre sentieri solitari in montagna, nuota fino allo sfinimento in mari tropicali e baie americane. Tra un pellegrinaggio e l’altro, esplora le aree del cervello altrui e proprio e contrae una quasi letale dipendenza dalle anfetamine. Con la maturità, subentra la dipendenza da psicanalisi e scrittura; cronicizzandosi, quest’ultima gli procura il successo letterario e la nomea di neuroscienziato.
Sacks sembra essere consapevole che spesso la sua attività psichica procede senza freni e a sua insaputa, condizionando ogni ambito dell’esistenza. La narrazione autobiografica diventa allora riflessione sul movimento non interamente prevedibile e controllabile. Benché si apra con i ricordi d’infanzia e si concluda con la vecchiaia, il racconto di Sacks procede in modo tutt’altro che ordinato. Ogni capitolo descrive gli accadimenti di alcuni decenni secondo una prospettiva diversa dal capitolo che precede e da quello che segue. Il lettore crede di procedere linearmente mentre il movimento è a spirale e riproduce quello vorticoso dell’esperienza di Sacks, della sperimentazione di sé che egli persegue ciecamente.
L’opera, anche dal punto di vista della scrittura, è un patchwork. Cuce insieme stralci di taccuini, diari, lettere, riflessioni su scritti precedenti, brani di quegli stessi scritti, con il risultato che pagine scorrevolissime si alternano ad altre insipide e trasandate. Tutte sono necessarie perché permettono al lettore di portare avanti lungo rotte diverse l’esplorazione della vita di uno scienziato e di uno scrittore sui generis. Una di quelle rotte rivela al mondo la sua omosessualità, vissuta di nascosto da una madre invadente che mette in moto il processo di autocensura del figlio. Attraverso avventure giovanili, qualche rara infatuazione e grazie infine a un amore senile, contraccambiato, per un giovane scrittore, l’omosessualità di Sacks emerge alla luce in tutta la sua fuorviante centralità di problema essenzialmente altrui.
Le personalità come quella di Sacks mi affascinano, perché a quanto pare riescono a fare della loro vita un’opera d’arte. Sono uomini o donne che vivono al limite, che è il punto d’incontro e di collisione tra l’ordine e il caos, tra il noto e l’ignoto, luogo di creatività e di autodisciplina dal quale scaturiscono sempre nuove informazioni. Sacks mostra che una vita da randagio è vitale ma anche pericolosa e paurosa, perché tutto si fa incerto.
Tra l’illusione tranquillizzante di sapere chi si è e l’ebbrezza di sentirsi completamente smarriti, l’unica bussola che sembra venire in soccorso è la tendenza a cercare collegamenti tra le cose, a formulare ipotesi non convenzionali, a elaborare una nuova visione della mente. Anche a rischio di perderla del tutto, per geniale che sia. Come quella di Oliver Sacks.
Open di Andrè Agassi
Ho resistito a lungo all'ottima recensione di Baricco su "La Repubblica" e al passaparola tra lettori in carne-e-ossa-e-virtuali che hanno portato l'autobiografia di Agassi al primo posto delle classifiche di vendita, già nel 2012. L'ho fatto non per snobismo, o non solo, ma per scarso interesse verso il tennis; suona come una scusa ma, per operare una selezione, talvolta bisogna raccontarsela.
Poi è andata così. Il Gruppo di Lettura a cui partecipo affronta il tema del rapporto genitori e figli attraverso la letteratura, da Balzac a… Agassi. Be’, ormai lo sanno tutti che Mike, il padre di Andre, è stata una presenza forte e controversa nella vita del tennista; è stata invece per me una piacevole sorpresa scoprire che questa “autobiografia” - scritta da un giornalista premio Pulitzer con uno stile pop-rap - ha anche un buon sapore di letteratura.
Lettura seducente dunque in cui ho avvertito un nucleo di verità che mi ha aiutato a dimenticare (leggi, "saltare") le pagine in cui la pallina rimbalza una riga dopo l’altra dopo l’altra dopo l’altra.
Jimmy's Hall di Ken Loach
La storia si svolge nella grigioverde Irlanda degli anni Trenta del secolo scorso. La Grande Depressione ha diffuso la povertà, ma anche il pensiero socialista e il desiderio di liberarsi dall'oppressione culturale esercitata dalla Chiesa. Dieci anni prima, nella contea di L., Jimmy aveva aperto in campagna una specie di piccolo centro ricreativo culturale per i giovani. Ma la libertà di pensiero che lì si coltiva dà fastidio al parroco e ai potenti locali. La sala viene chiusa e Jimmy emigra in America. Quando torna è appena più maturo e con qualche filo grigio tra i capelli. Basta poco perché decida di riaprire la sala con l'aiuto degli amici di sempre, sostenuto da tutta la comunità e dai giovanissimi. Non passa molto tempo e questa volta la sala viene bruciata. Jimmy è costretto ad imbarcarsi nuovamente per l'America, in manette. Morirà una quindicina d'anni dopo, esule.
La bellezza del film sta nel tocco delicato della narrazione. Per una precisa scelta del regista, i toni non sono mai accesi; quanto di drammatico attraversa gli eventi emerge per semplici accostamenti. In apertura, Jimmy fa ritorno alla casa materna su un carro tirato da un cavallo. Lo ferma un gruppetto di adolescenti spavaldi, che hanno sentito parlare di lui dai genitori o dai fratelli e amici più grandi. Non lo conoscono, ma vogliono che riapra la sala per loro. Perplesso, Jimmy rifiuta; poi la riapre. Alla fine del film viene portato via ammanettato su una camionetta militare aperta, che viene momentaneamente bloccata dallo stesso gruppo di adolescenti sorridenti, invitti, che lo ringraziano e promettono che non verrà dimenticato. Sì, la storia si ripete. Ma basta un dettaglio per segnalare che, forse, un cambiamento è intervenuto.
Jimmy è la personificazione di un leader, parola che spesso designa colui che stila programmi e pone obiettivi impossibili, arringa folle, le trascina in rivoluzioni con spargimento di sangue, dilapida vite ed energie. Ma il Jimmy di Loach è della fattura che preferisco io: è un intellettuale, un privilegiato che sa di esserlo. La madre da giovane era bibliotecaria, consegnava a domicilio libri a bambini e ragazzi della contea. Quando la chiamano a difendere il figlio, con un discorso limpido e potente afferma di averlo nutrito di storie e consegnato al mondo. E lui, con le storie negli occhi e nella carne, si imbarca, fa il cameriere e molti altri lavori. Nella scena della cattura lo troviamo nascosto in una casa disabitata. In piedi accanto a una finestra, sta leggendo. Non urla, non inveisce, non posa a martire. Nei confronti di chi lo osteggia e vuole azzerare gli sforzi della collettività, mantiene un contegno di fermezza che non diventa mai di chiusa ostilità. Abituato a sentire quel che le storie raccontano, e ad ascoltare ciò che non dicono, lo si vede spesso in ascolto dei suoi compaesani. Jimmy legge dentro, raccoglie, fa convergere. Aiuta a tradurre in azione quello che per gli altri è un bisogno indistinto, vago. Per due volte riapre la sala perfettamente consapevole che non sarà lui ad animarla, bensì chi ha competenze per offrirsi come insegnante di ballo, disegno, canto, letteratura, falegnameria. E Jimmy ama... Ma questa è la stessa storia, raccontata a partire da un verbo usurato anziché da un sostantivo – intellettuale - antipatico e non più di moda, eppure ancora capace di colpirmi per la sua sorprendente appropriatezza.