RECENSIONI
Legami feroci di Vivian Gornick
Ero convinta che i ricordi non si potessero inventare, e neppure si dovessero inventare. Fino a quando mi sono imbattuta in Legami feroci, il memoir di Vivian Gornick, giornalista e critica letteraria americana (Bompiani 2016, trad. di Elena Dal Pra).
Racconta di una madre e di una figlia – l’autrice stessa - nella New York del secolo scorso e del rapporto ambivalente ma inscindibile che le lega: “Mia madre è una contadina metropolitana e io sono figlia di mia madre. La città è il nostro elemento naturale. Entrambe viviamo avventure quotidiane con autisti di autobus, senza tetto, bigliettai e psicolabili. Camminare tira fuori il meglio di noi. Io adesso ho quarantacinque anni, e mia madre settantasette. E’ forte e in salute. Attraversa l’isola da una parte all’altra facilmente, con me. Non ci vogliamo bene durante queste camminate, spesso facciamo delle grandi litigate, ma comunque camminiamo. I nostri momenti migliori sono quando parliamo del passato.” Durante i loro viaggi nel tempo, madre e figlia procedono a braccetto e a me è sembrato di essere appena un passo dietro di loro, a ridere per i dialoghi e per le battute fulminanti che la Gornick cuce addosso ai personaggi della sua vita. Le vicine di casa dell’infanzia, le amiche, un marito e un amante compaiono sulla scena al momento giusto, per aggiungere una nota drammatica, picaresca o sentimentale alla storia. La narrazione nasce dall’oscillazione, a volte delicata a volte sconvolgente, tra il passato e il presente. Come nell’episodio dello zio: “Ma no, mamma, non sto dicendo questo. Sto solo dicendo che è strano che tu non abbia neanche fiatato.” Di nuovo mi aveva ripetuto che si era molto spaventata. “Ma fammi il piacere” ho commentato tagliente. “Mi fai schifo!” mi ha urlato lì in mezzo alla strada. “Che genio di figlia che ho! Sei un tale genio che dovrei farti prendere altre due lauree. Secondo te io volevo che mio zio mi violentasse, giusto? Ah, ma che pensata originale!” E dopo questa uscita non ci siamo più rivolte la parola per un mese.” Le conversazioni tra madre e figlia toccano i nervi scoperti della condizione femminile in ogni tempo e luogo, e la necessità di venire a patti con una vita che assegna fin da bambine il ruolo di vittime.
Al nitore dei tanti episodi - quasi una sfida a cercare riscontri di luoghi, date e volti reali della vita della Gornick – fanno da contrappeso gli altrettanti “non so” di cui è costellato il racconto. Che cosa non sa l’autrice? Quali altri ricordi le sono preclusi? E ancora: come l’hanno trasformata i suoi ricordi? Legami feroci è la storia di come si affrontano i buchi neri di una memoria amputata dalle emozioni; è il tentativo di rendere visibile l’invisibile, di fissare le immagini che non si vedono e che hanno la consistenza dei fantasmi. Per lungo tempo la Gornick non sa di essere una scrittrice. Scrivere un memoir significa raccontare l’ambivalenza di fronte al cammino che si è intrapreso, come donna e scrittrice. Dalla scrittura percepita come “un sovversivo dentro i confini del mio essere” alla gioia del pensiero che, quando arriva, è ineguagliabile: “le frasi cominciarono a sgorgare dentro di me, premendo per uscire; […] In quel preciso istante mi sentii come spalancare. I miei confini interiori si aprirono a formare quel rettangolo libero, tutto aria tersa e spazio vuoto, che mi partiva dalla fronte e finiva nell’inguine. Al centro del rettangolo la mia idea, in attesa di definirsi.”
In questo stato di grazia, diversi ricordi reali collassano in uno e possibilità molteplici emergono dall’attività di scrittura che scardina, scavalcando, la verità oggettiva ricostruendo gli eventi per ciò che hanno significato. Come nell’ultima scena che culmina in un dialogo dolente tra la madre ormai ottantenne e la figlia di cinquanta: “Perché sei qui? Perché non esci dalla mia vita? Non sarò certo io a fermarti.” “Sì mamma, questo lo so.” Una resa malinconica che illumina di luce retrospettiva il memoir della Gornick, abile regista di una metamorfosi che accade sotto i miei occhi, e che per tutta la durata della lettura mi interroga inesorabile. Ora lo so, le memorie si possono soltanto inventare.
Fair Play di Tove Jansson
Sono seduta a gambe incrociate sul divano, la stanza rischiarata dalla portafinestra a ovest, intorno a me fazzoletti, coperta, cellulare, ogni cosa alla giusta distanza compreso il gatto arrotolato su se stesso a sfiorarmi la coscia, e tra le mani il libro. Tocca a Fair Play, una raccolta di racconti della finlandese Tove Jansson (scrittrice per bambini e pittrice, 1914 – 2001), che avevo già spiluccata in rari momenti di tranquillità serale, aspettando un momento più favorevole.
Mari scrittrice e Jonna pittrice sono le protagoniste settantenni di tutti i racconti. Sono compagne da quaranta, abitano atelier ai capi opposti di uno stabile affacciato sul porto di Helsinki e, nella stagione più calda, una casetta condivisa su un'isola solitaria nel mar nordico. Rinnovano i quadri sulle pareti e discutono, fanno un giro in barca, guardano film e litigano, ricevono visite, viaggiano consumando silenzi e litigano ancora, poi lavorano, fanno pace e discutono di nuovo. Tutto qui.
Sto leggendo, suona il telefono, quello fisso in un'altra stanza. Mi alzo scomodando il gatto e imprecando come a volte mi riesce. Vorrei scorgere sul display il prefisso di Roma o Milano per poter tornare immediatamente alla lettura, invece le cifre corrispondono al cellulare di una collega, a cui non posso non rispondere. Si sono persi degli incartamenti, per caso, so dove sono finiti? No, mi dispiace ("sono in viaggio per un'isola del mare del Nord"). Sul divano il mio posto ora è stato occupato dal gatto.
Squillò il telefono e Jonna andò a rispondere. Ascoltò a lungo, poi disse: "Aspetta un attimo, ti do il suo numero. Stai calma, solo un secondo." Mari la sentì chiudere la conversazione con un brusco: "Richiama se ci sono novità. Ciao."
"Cos'è successo?" chiese Mari. "Era di nuovo Alma. Il loro gatto è saltato dalla finestra. Stava cercando di acchiappare un piccione."
"Stai scherzando? Il povero Mosse! Non avevo capito, sei stata così brusca..."
"Le ho dato il numero del veterinario", disse Jonna. "Bisogna essere pratici e concisi quando c'è un'emergenza. Stavi parlando di qualcosa di inadeguato?"
"Non adesso!" sbottò Mari spazientita. "Povero Mosse...Jonna, mi sa che me ne vado a letto." "No", rispose Jonna. "Dobbiamo aspettare. Potrebbe richiamare e aver bisogno di essere consolata. Nel qual caso tocca a te rispondere, e puoi parlarle quanto vuoi. Spartiamo equamente, lo sai."
Le vicende di Mari e Jonna sono anche le nostre – la complicità della convivenza, le cene tra amici, il lavoro e il bisogno di solitudine – ma, grazie a una scrittura poetica e sottilmente ironica, ci appaiono nella loro irrimediabile estraneità. Quanto basta: il “gioco leale” della Jansson stempera ogni sentimento di sconfitta e la lettura si fa leggera.
A un’amica venuta a piangere la sua tristezza da amore perduto propongo: "sai che meraviglia tu e io in una casetta sperduta su un'isola in mezzo al mare. Tu a fumare e a creare gioielli, io a leggere e a camminare, poi un qualche tuffo in città in mezzo alla gente, alla mondanità e ancora di nuovo sole io e te". L'ho fatta ridere la mia amica: in quel momento si è chiesta chi è più pazza fra noi due.
Arlington Park di Rachel Cusk
Per le stesse ragioni per cui mi è piaciuto, Arlington Park non mi è piaciuto.
Non so come dirlo diversamente: non sono curiosa di leggere altro della Cusk perché il suo romanzo ha la perfezione un po’ raggelante di una macchina che, caricata secondo un certo programma, lo porti a compimento senza perdere un colpo e senza concedersi se non a sentimenti di ammirazione. La bravura della Cusk la si può solo ammirare, ma da lontano, là dove ti respinge.
Perciò sono tentata di esprimere in forma critica le mie osservazioni, malgrado abbia letto il romanzo con buon ritmo grazie all'acutezza dello sguardo dell'autrice, capace di tradursi in uno stile ricco di stratificazioni letterarie. Ne cito una su tutte: il riferimento al saggio di Virginia Woolf Una stanza tutta per sé. Ma se la complessità della Wolf si traduce in uno stile pieno d'aria e di leggerezza, perché in Arlington Park ci si ritrova in un romanzo claustrofobico?
Arlington Park parla di spazi. Spazi chiusi, che sembrano sotto assedio. Una fortezza è il quartiere, mentre le case delle protagoniste, la biblioteca di Juliet, la stanza di Solly, l'automobile in cui si asserraglia Amanda, sono prigioni di cui le ospiti possiedono la chiave. Una prigione è la mente di Christine, di una bellezza terribile che cannibalizza anche l'impulso sessuale trasformandolo in un impulso di morte (con buona pace di Freud). Persino la dimensione temporale non lascia scampo: una notte di pioggia, di quelle che, se non si dorme, si è contenti di avere un tetto - e che tetto! - sotto il quale trovare protezione. Tutto avviene nel corso della giornata feriale seguente in cui alcune donne, per lo più casalinghe e benestanti, mettono in scena la loro quotidiana vita senza speranza che si brucia in spazi non più penetrabili agli uomini, che da coinquilini si sono trasformati in assedianti e poi in assassini. Ma forse lo sono sempre stati. A me sembra che una delle poche chiavi "di speranza" sia proprio la stanza di Solly. Lei è la prima a pensare di affittarla a un estraneo. Solo una volta trasformata la stanza in un avamposto per il mondo esterno, le verrà in mente di rivendicarla per sé. Angosciante. E siamo nel Duemila.