RECENSIONI
Sette minuti dopo la mezzanotte di Patrick Ness e Siobhan Dowd
Quando la morte altrui s’affaccia alla finestra della vita, fare la cosa giusta diventa un bisogno che dilania, a tredici anni come a trenta, e anche a cinquanta. Lo sa bene Conor O’Malley, il giovane protagonista di A Monster Calls - Sette minuti dopo la mezzanotte (trad. di Giuseppe Iacobaci, Mondadori), e certo doveva saperlo Siobhan Dowd, pluripremiata scrittrice per ragazzi, che abbozza il tema della storia prima di morire di tumore a quarantasette anni.
I lettori sono avvertiti fin d’ora: il lieto fine non è previsto e le emozioni – paura, rabbia, vergogna, angoscia – aumentano d’intensità pagina dopo pagina. Raccomando di tenere i fazzoletti a portata di mano, come esige la “letteratura della malattia” o “sick lit”, fenomeno editoriale che oltrepassa i confini della letteratura prosperando in simbiosi con il cinema e la televisione. Non sorprende che il soggetto originale della Dowd sia stato sviluppato fino a farne un romanzo vero e proprio, e che il suo autore, Patrick Ness, abbia firmato anche la sceneggiatura del film omonimo, uscito nel 2016. Come diceva Oscar Wilde: “Di questi tempi un cuore spezzato si tira a migliaia di copie”.
Ma Sette minuti dopo la mezzanotte non merita l’etichetta di libro strappalacrime. The New York Times, che lo ha definito “un capolavoro assoluto”, per una volta non l’ha sparata grossa. Le tavole in bianco e nero dell’illustratore Jim Kay si fondono alla perfezione con le parole di Ness, proprio come succede nei libri di fiabe per bambini. C’è anche un Mostro, ma non basta a fare di Sette minuti un fantasy. Le sue pagine patinate contengono non una ma almeno quattro storie di una bellezza terrificante, e almeno due personaggi – il bullo Harry e la nonna di Conor – ai quali è impossibile non affezionarsi. Quando poi arriverete a leggere le ultime tre righe, vi sembreranno così banali che vi verrà voglia di rileggere tutto ciò che precede, per capire dove avete iniziato a commuovervi, e dove a spaventarvi.
Il protagonista del romanzo non è diverso o migliore dei ragazzi suoi coetanei. Cerca solo di fare la cosa giusta. Mette da parte sogni e desideri purché si realizzi il sogno o il desiderio che gli sta più a cuore: la guarigione della madre malata, come promesso dall’ultimo ciclo di terapie. Ma a un’estate di speranza segue un autunno di incertezza durante il quale, assieme alla nebbia, qualcos’altro s’insinua dentro Conor. La notte è tormentato da un incubo che non può raccontare a nessuno, neppure a se stesso, perché ogni volta si sveglia prima che accada l’indicibile.
Al termine di quella che Conor stesso definisce “una storia orribile, un inganno”, sapremo, al pari di lui, che l’indicibile non è la morte, mai.
La carrozza di Velestia e L'oscura ombra di Durebor di Demetrio Battaglia
A prendere tra le mani questi due librini, uno rosso opaco e l’altro color chicco di caffè, si ha il desiderio di trattarli come cosa preziosa, esplorando con dita leggere il logo della collana impresso a secco sulla copertina, percorrendo con occhi avidi le rare illustrazioni a matita e sfiorando infine la sobria eleganza di ogni pagina, attenti a non sgualcirli.
Invece sono stati loro a trattare me - lettrice poco affezionata al fantasy di cui Demetrio Battaglia è premiato autore - con cura sapiente.
La carrozza di Velestia e L’oscura ombra di Durebor sono due racconti lunghi che si sottraggono a facili etichette di genere – fantasy, giallo, di formazione, psicologico, sapienziale – e traghettano per qualche ora in un mondo altro, nel tempo e nello spazio. Assieme al giovane apprendista Novir, voce narrante che annota su un taccuino le sue giornate, e al Maestro Syrus, erborista di chiara fama e oscuri trascorsi, mi sono messa sulle tracce di una verità che sta sempre lì davanti ai nostri occhi ma che non sappiamo vedere.
I due racconti fanno parte della saga I Taccuini del Ginepro, che comprende otto racconti che hanno per protagonisti Novir, il maestro Syrus insieme a tanti altri personaggi, alcuni morti ammazzati.