RECENSIONI
Stoner di John E. Williams
Non mi capacitavo di avere Stoner tra le mani – il romanzo di John Williams recensito da altri con parole rapite – e di trovarlo insipido. M’inoltravo tra le pagine e quel personaggio mi sembrava piatto e informe, un abbozzo di vita umana troppo semplice.
Ho smesso di leggerlo, intuivo che mancavo del tempo e dello spazio per accogliere un duro come Stoner. Il secondo incontro è avvenuto dopo un anno, nel frattempo avevo amato Martin Eden, Letty Fox e La casa del professore, ed è stato come aver infilato subito la porta giusta, con disinvoltura.
Il romanzo racconta la vita di William Stoner - nelle prime venti righe del capitolo uno è già detto tutto di lui - studente ricercatore e professore dell’Università del Missouri dal 1910 al 1956, visse e morì lì senza che nessuno, oggi come allora, serbi di lui un ricordo nitido. I diciannove anni della sua vita pre-universitaria sono liquidati in un paio di pagine: nasce figlio di contadini, della povertà e dell’ignoranza. E’ null’altro che un abbozzo di uomo, un corpo che cammina senza sapere dove andare e l’università con le sue pertinenze, a quaranta miglia da casa, diventa lo scenario possibile per una vita che nulla sa su di sé.
Mi accorgo che sono le prime pagine quelle decisive per il lettore, quando Stoner può diventare il vuoto che attrae, il troppo pieno da sgrezzare, la scintilla che si spegne e richiede l’inutile umana pazienza per essere accesa più volte, fino alla morte. Stoner s’accomoda in ogni pagina del romanzo. Il mentore Sloane, gli amici e i colleghi, il padre e la madre, la moglie Edith, la giovane amante Katherine e la figlia Grace sono personaggi che non si dimenticano, perché in un modo speciale sono lo stesso Stoner, si definiscono reciprocamente: “Parlarono fino a notte fonda, come vecchi amici. E Stoner alla fine capì che Grace, come gli aveva detto, era quasi felice nella sua disperazione. Avrebbe vissuto serenamente, bevendo sempre un po’ di più, anno dopo anno, per stordirsi e non pensare al nulla cui si era ridotta la sua vita. Fu lieto che avesse almeno quello, fu grato che potesse bere.”
Non si entra mai nella storia, si assiste “ipnotizzati” alla vita di Stoner attraverso un vetro di perfetta trasparenza: la scrittura di Williams è tersa, priva di opacità, un invito a osservare il movimento levigante della vita, guardando il dettaglio senza mai perdere di vista il tutto. Una scrittura che sento virile, in equilibrio perfetto tra delicatezza e ruvidità.
La casa delle belle addormentate di Y. Kawabata
Leggo La casa delle belle addormentate e provo fin dall’inizio la sensazione di essere caduta in una trappola.
Mi affaccio a un mondo color pastello: all'uscio di una casa giapponese una donna, che sa fare un tè squisito, accoglie la mia curiosità ingenua che va a braccetto con la baldanza del protagonista, Eguchi. Solo alcune pagine più tardi, osservando i movimenti di Eguchi con lo sguardo smaliziato del narratore, mi scuoto dal languore e realizzo che sono entrata in un postribolo, teatro dell'osceno con quinte di velluto rosso.
Ebbene, il romanzo di Kawabata parla di una casa d’appuntamenti che accoglie solo clienti di una certa età ai quali una tenutaria concede l’ambiguo privilegio di coricarsi al fianco di bellissime vergini profondamente addormentate. E’ dunque ricercata l'atmosfera mutevole e sfuggente, cosicché restano vivide le immagini: corpi che profumano di latte, seni da cui stilla sangue, abbondanza di arcobaleni e immancabili ciliegi in fiore, su tutte il selciato che conduce alla casa divenuto infine scivoloso per le foglie bagnate, costringendo Eguchi un po' stizzito ad accettare il sostegno della donna e l’ineluttabilità della vecchiaia.
Se mi affeziono all'idea che ogni cosa lì accade nello stesso momento, m’accorgo che il protagonista indulge in un'unica azione. Tutto per lui è penetrazione. La sua curiosità lo spinge a penetrare nella casa e a non accontentarsi dei racconti di un amico, ritiene d'altronde di avere un'intelligenza più acuta (penetrante) rispetto agli altri frequentatori e anche il suo corpo è ancora potente. Una volta steso a fianco delle ragazze addormentate è preso dall’inquietudine: il suo sguardo le invade, tocca loro labbra e denti, desidererebbe strangolarle o penetrarle, anche se sa che è impossibile. E' trattenuto da una percezione distorta e perdurante di sé e dei rapporti con le donne, a cui è disinteressato, se non come corpi tra loro indistinguibili. Ma è smanioso anche di giocare in anticipo: penetrare il segreto della morte (e della bellezza non corrotta), saltando a piè pari il decadimento della vecchiaia. Eguchi mancherà due volte all'appuntamento con la morte, che non può ancora essere la sua, non avendo lui mai ottemperato veramente all'appuntamento con la vita.
La casa delle belle addormentate nasconde molti segreti e significati, a me ha offerto una lettura per immagini, tutte spiazzanti a volte dolorose, sulla contrapposizione tra penetrazione e osservazione. Eguchi, e con lui i molti maschi arcaici che vestono panni moderni e se ne fanno vanto, non sa osservare quietamente e a lungo, così da essere capace di raccontare storie, di raccontarsi la propria storia, di stendersi accanto alla morte senza volerne penetrare a ogni costo il mistero
Le particelle elementari di Michel Houellebecq
"Questo libro è innanzitutto la storia di un uomo, un uomo che passò la maggior parte della propria vita in Europa occidentale nella seconda metà del Ventesimo Secolo. [...]. Visse in un'epoca infelice e travagliata".
Lette le righe iniziali, ho pensato subito: cominciamo bene! Senza ironia, beninteso.
Le particelle elementari di Michel Houellebecq prometteva di essere un romanzo d'idee su un periodo storico che in parte ho vissuto e che proprio per questo trovo difficile da decifrare. A tenere accesa la mia curiosità hanno contribuito i successivi cambi di registro, il tono messianico del prologo che si conclude con una poesia, il titolo della prima parte "Il regno perduto". Amo i libri scritti pescando a piene mani in generi e linguaggi diversi, dal saggio scientifico al trattato di sociologia e di antropologia, dal resoconto storico alla riflessione filosofica. Il fatto che il protagonista principale, Michel Djerzinski, porti in modo sfacciato il nome dell'autore, mi faceva supporre che al centro del romanzo, complice un ulteriore mix di elementi autobiografici e agiografici, ci fosse proprio la storia di un uomo. Non è così.
Michel, scienziato di fama, e il fratellastro Bruno Clement, poeta e insegnante fallito, entrambi segnati in giovanissima età dall’abbandono della stessa madre, insieme non fanno un uomo. Nel corso del romanzo, Michel abdica a qualsiasi forma di sensibilità e Bruno al piacere fisico, dopo averlo inseguito a lungo e invano. Entrambi i fratelli assistono alla morte (essendone i responsabili non materiali) di tutte le donne della loro vita: le nonne da cui sono stati allevati, Annabelle e Christiane, specchio l’una dell’altra e ambedue dei rispettivi uomini, e finalmente la madre. Rimane la vicenda narrata.
Continuo a leggere, e provo la sensazione spiacevole che Houellebecq abbia allestito per me una sala operatoria asettica, munita di apparecchiature d'avanguardia, e che dopo avermi introdotto in essa mi porga uno alla volta, prelevandoli da un vassoio d'acciaio, strumenti chirurgici affilatissimi con i quali, guidata da lui, dovrei incidere un pezzo di storia d'Occidente, asportandone il tumore. Una parola!
Le pagine si susseguono, notificando con il linguaggio impersonale dei bollettini medici alcuni sviluppi scabrosi della situazione clinica del “paziente”, la necrosi che interessa certi tessuti del suo organismo, i pus che fuoriescono dagli orifizi meno in vista. Ci sono aspetti anche crudi dell’anatomopatologia che si prestano a interpretazioni umoristiche, se osservati con un certo distacco. Qui il distacco non fa che accrescere il senso di estraneità. Le sorti dell’Occidente, la sua interminabile agonia, non destano alcuna commozione in me.
Tanta cupezza mortifera è insostenibile. Non mi interessa più sapere come se la passa Michel, che strada a senso unico imboccherà il povero Bruno, cosa ne sarà degli uomini e delle donne del Duemila, artefici della stasi politica che colpisce soprattutto le loro zone erogene: desidero uscire da questo libro al più presto. Mi auto-espello dal romanzo.
Chissà se Houellebecq avrà goduto del successo di questa sua opera prima e delle polemiche che l’hanno accompagnato e, almeno in parte, determinato. Mi chiedo: possono esistere romanzi scritti a bella posta per espellere chi li legge? In altre parole: l'indifferenza verso le umane sorti è un sentimento che il romanzo comunica a tutti i suoi lettori oppure a me soltanto? In quella sala operatoria immaginaria dove giace, con le pudenda oscenamente scoperte, il corpo tagliuzzato della civiltà occidentale, i monitor non registrano più alcuna attività cerebrale. Il battito che ho creduto di sentire è un simulacro di vita; forse non è che l’eco dei tasti della macchina da scrivere rabbiosamente percossi da Houellebecq. Impassibile, stacco la spina.
E a mo' di amaro epitaffio espongo un cartello, "Questo libro è dedicato all'uomo", la frase con cui l’autore sigilla il romanzo e la storia del Ventesimo Secolo. E le particelle elementari? Ah, questa è un'altra storia …(recensione pubblicata su "Modalità Lettura", n. 6 del 19.03.2017, rubrica di Bassanonet.it)